Renato Raffaelli

DUE PAROLE SU CESARE QUESTA E IL TEATRO *

Quando l’amico Roberto Danese mi disse che il gruppo della Resistenza della Poesia (da noi chiamati più sinteticamente e affettuosamente i “resistenti”), assieme ad altri giovani studiosi dell’Università di Urbino, aveva dato vita al Centro Teatrale Universitario e che, d’accordo con lui e con le autorità accademiche, l’avevano intitolato a Cesare Questa, confesso che rimasi sorpreso e, lì per lì, anche un po’ perplesso. Per due motivi. Il primo è che Cesare aveva sempre manifestato in vita, e poi, definitivamente, nel suo testamento, un reciso rifiuto verso cerimonie, intitolazioni e ― sono parole sue ― «altre ipocrisie accademiche». Tanto che lo scorso maggio, quando, in occasione dei tre mesi dalla scomparsa, si tenne un suo ricordo a Palazzo Veterani, lo facemmo senza nessuna pubblicità e quasi clandestinamente. Il secondo motivo è che mi sembrava piuttosto paradossale che gli venisse intitolato proprio un Centro Teatrale. Sappiamo tutti quanto egli amasse il teatro ― in particolare l’opera ― e quanto abbia amato e studiato quello di Plauto. Ma, come ho avuto modo di accennare a Sarsina nel settembre scorso (1), nella sua lunga e feconda esperienza di studioso di Plauto, Questa ne ha indagato praticamente tutti gli aspetti ― dalla metrica alla tradizione manoscritta, dalla drammaturgia allo stile, dalla storia degli studi a quella della ricezione e della fortuna ― tranne proprio quello della traduzione e della realizzazione scenica delle commedie. Un aspetto, si badi, che pure non era estraneo né alla sua sensibilità, né all’ambiente in cui si era formato e aveva cominciato a dedicarsi a Plauto. Il suo maestro Ettore Paratore, proprio negli anni Cinquanta del secolo scorso in cui Questa si formava alla sua scuola, aveva infatti tradotto alcune commedie plautine e collaborato anche alla loro messa in scena, nelle stagioni che allora si svolgevano a Ostia antica (2). Venti anni dopo (Roma 1976) Paratore pubblicò la traduzione in cinque volumi di Tutte le commedie di Plauto, dedicandola, non per caso, «alla memoria di Luigi Almirante, Annibale Ninchi, Giulio Pacuvio e Camillo Pilotto, che collaborarono felicemente alla prima rappresentazione di commedie plautine da me tradotte» (3). Di alcune di quelle rappresentazioni Questa era stato spettatore attentissimo e me ne parlò molte volte, con nostalgia e viva ammirazione per i grandi attori che ne erano stati protagonisti. E tuttavia su quella strada non si è mai spinto. Anche nella sua fortunata edizione delle Bacchides ― uscita nel 1965 in una collana dell’editore Sansoni, ideata da Paratore, che prevedeva una traduzione italiana accanto al testo criticamente stabilito ― la traduzione non la fece lui, ma un altro allievo di Paratore, di qualche anno più grande e già con solide esperienze letterarie alle spalle, Luca Canali.

Non voglio tenere troppo sulle spine gli amici “resistenti” e dico subito che, nonostante tutto, la mia iniziale perplessità si è presto dissipata. Anche in questo caso, per due ragioni. La prima è che proprio l’ambito non scontato, e anzi piuttosto lontano da quelli da Cesare abitualmente frequentati, gli avrebbe reso meno indigesta l’intitolazione a suo nome non di una delle consuete istituzioni accademiche, ma di un tutt’altro che paludato Centro Teatrale. Tutto sommato, conoscendolo bene, credo che anche lui, superata la contrarietà iniziale, proprio per la “trasversalità” del riconoscimento vi si sarebbe poi facilmente “rassegnato” e che, alla fine, ne sarebbe stato anche un poco lusingato. Se l’invidia gli era totalmente estranea, un po’ di vanità non gli mancava. Quello che lo più lo disturbava era l’ovvio, il déjà vu; molto lo attiravano, invece, il bizzarro e l’imprevisto.

Quanto alla seconda ragione, ci arriveremo per un percorso un po’ meno diretto. Nel ricordo di Sarsina, ove appunto dicevo che «una cosa cui non si è dedicato ex professo è stata la traduzione», aggiungevo però che «alcune traduzioni di brevi passi presenti in qualche edizioncina della bur mostrano che anche in questo ambito avrebbe potuto lasciare la sua impronta» (4). Pensavo in particolare a due passi dello Pseudolus, una commedia che gli è stata molto cara e di cui è prossima la pubblicazione dell’edizione critica da lui curata, che purtroppo, nonostante le fatiche e le estreme energie che vi ha profuso, non ha potuto vedere ultimata (5). Nella Lettura dello Pseudolus, premessa come introduzione alla commedia nell’edizione della bur (6), Questa traduce due brevi passi consecutivi, in cui compaiono il giovane Calidoro, il servo Pseudolo e il lenone Ballione. La prima traduzione, con tagli frequenti e sostanziosi, si riferisce a Pseud. 322-348, in cui Ballione “rassicura” Calidoro che non venderà la bella Fenicio, semplicemente… perché l’ha già venduta (p. 64):

Pseudolo si intromette e chiede al lenone di aspettare […] sei giorni a vendere Fenicio. Ballione gli replica: «Ma sta’ tranquillo! Aspetterò anche sei mesi…; anzi, vuoi che renda Calidoro, da contento che è adesso, ancora più contento? Fenicio non è più in vendita…». «Non la vendi più?» chiede Calidoro, «Proprio no» replica Ballione. Calidoro […] chiede ancora: «Ma dimmi sul serio: non la vendi più Fenicio?». E Ballione: «No, perché l’ho già venduta». Calidoro è allibito: «E come?»«Senza abiti, ma con tutte le budella» ― «Tu hai venduto la mia ragazza?» ― «Sì, per venti mine» ― «Per venti mine?» ― «O come ti piace: anche per quattro volte cinque mine, e a un soldato macedone e ne ho già avute quindici mine» ― «Cosa ascolto da te?» ― «Che la tua ragazza si è trasformata in un mucchio di soldi» ― «Perché hai osato far questo?» ― «Perché così m’è piaciuto: era di mia proprietà».

La seconda traduzione comprende invece integralmente Pseud. 360-368, in cui Pseudolo e Calidoro caricano Ballione di contumelie, senza che il lenone ne sia minimamente scalfito:

PS. Svergognato! BA. È così. CA. Scellerato! BA. È vero. PS. Pezzo da frusta.

BA. Perché no? CA. Saccheggiatore di sepolcri. BA. Sicuro. PS. Pendaglio da forca! BA. Benissimo.

CA. Traditore degli amici. BA. È cosa mia. PS. Parricida! BA. (a Ca.) Continua.

CA. Sacrilego! BA. Lo ammetto. PS. Spergiuro! BA. Che vecchia litania.

CA. Violatore di leggi! BA. Sicuro. PS. Rovina dei giovani. BA. Benissimo.

CA. Ladro! BA. Bum. PS. Schiavo fuggitivo! BA. Bumbùm CA. Ingannatore del popolo! BA. Senz’altro.

PS. Imbroglione! CA. Svergognato! PS. Ruffiano! CA. Fango! BA. Che bravi cantanti. (7)

CA. Hai picchiato tuo padre e tua madre! BA. E li ho anche fatti fuori

piuttosto che mantenerli: ho fatto forse qualcosa di male?

Come si vede, oltre a una conoscenza senza pari di Plauto e della sua lexis, non mancavano a Questa il senso del comico e il brio per esserne anche un eccellente traduttore. E un traduttore consapevole che una versione di Plauto non può non tener conto delle esigenze della messa in scena, perché la parola parlata (o declamata o cantata) del teatro e la parola scritta del libro e della letteratura non sono e non possono essere la medesima cosa. In definitiva, se Questa non ci ha lasciato vere e proprie traduzioni plautine, forse sarà perché gliene è mancato il tempo o l’occasione e non certo perché gliene mancasse l’attitudine. Dunque, anche da questo punto di vista, l’ostacolo e l’apparente paradosso dell’attribuzione del suo nome al Centro Teatrale dell’Università di Urbino possono essere facilmente rimossi. Si tratta infatti del riconoscimento e dell’omaggio di alcuni ex alunni e di studenti, che hanno la fortuna e il piacere di fare teatro, a un filologo che non è stato solo un puro filologo e che, anche per amore verso il teatro, ha dedicato la più gran parte della sua vita a uno dei massimi autori comici d’ogni tempo, paragonabile ad Aristofane, a Molière, a Rossini. Pure quest’ultimo, peraltro, fu da lui molto amato sin da giovanissimo e nella maturità assiduamente frequentato e studiato (8).

In ogni caso, qualunque cosa Questa potesse veramente pensare riguardo a ciò che a lui si è attribuito e che di lui si è detto qui, sono convinto che, se avesse potuto assistere all’Aulularia che verrà rappresentata questa sera, alla fine avrebbe riso di gusto e si sarebbe rallegrato e compiaciuto di vedere il suo nome “in ditta”, nella locandina. Perché oltretutto, come per Augusto, anche per Cesare la vita era in fondo una commedia, dove ognuno ha il compito di recitare la sua parte, meglio che può.

NOTE

(*) Queste parole, qui integrate da poche note aggiuntive, furono pronunciate nel teatro Sanzio di Urbino il 10 novembre 2016, in occasione del Convegno Da Plauto alla Commedia dell’Arte, organizzato dal CTU Cesare Questa, l’Università di Urbino Carlo Bo e La Resistenza della Poesia.

(1) R. Raffaelli, Plauto, Questa, Sarsina: un incontro felice, in R. Raffaelli e A. Tontini (a cura di), Lecturae Plautinae Sarsinates, xx-xxi, Truculentus, Vidularia, Sarsina 24 settembre 2016, Urbino 2017, pp. 19-27.

(2) A questo proposito, proprio in occasione delle rappresentazioni della Casina tenute nel teatro romano di Ostia antica nel giugno-luglio 1956, Cesare Questa pubblicò nel Programma degli spettacoli classici estivi curato dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico («Il dramma antico» suppl. ai nn. 7 e 8, luglio-agosto 1956, p. 21) quello che possiamo considerare il suo primo scritto su Plauto. In questo breve lavoro, intitolato Il pubblico moderno e l’azione scenica della Casina, Questa, non ancora ventiduenne, mostra in genere di seguire da vicino le orme del suo maestro Ettore Paratore. Vale la pena, tuttavia, citarne un paragrafo, in cui già spicca una singolare vivacità d’espressione e di giudizio: «La Casina, e tutto Plauto, il pubblico moderno deve ascoltare con la stessa disposizione di spirito con la quale si assiste a un’opera buffa. È stato osservato che, se potessimo ricostruire l’accompagnamento musicale dei cantica, vedremmo che essi […] non sono molto lontani dall’aria della nostra opera comica. E che si chiede a questa altro che non sia l’incontenibile, ridanciano esplodere di una gioia trionfale? Chi si è mai preoccupato […] della coerenza dei personaggi e dell’azione di fronte allo scatenarsi di furore ritmico del grande concertato del Barbiere o del forsennato aggrovigliarsi di voci nel sestetto «Questo è un nodo ringruppato [scil. avviluppato]» della Cenerentola?».

(3) I, p. 7.

(4) Plauto, Questa… cit, p. 21.

(5) Nel frattempo l’edizione è uscita, grazie alle cure di Alessio Torino, l’ultimo dei suoi allievi diretti: Titus Maccius Plautus, Pseudolus, ed. C. Questa, cur. ad. A. Torino, Sarsinae et Urbini mmxvii.

(6) Milano 1983; poi ristampata in C. Questa, Sei letture plautine, Urbino 2004, p. 115 sgg.

(7) Il valore da dare all’espressione cantores probos è chiarito brillantemente da M. Bettini, Preletterario, popolare, contadino. Tre categorie “atellaniche” su cui riflettere, II, in R. Raffaelli e A. Tontini (a cura di), L’Atellana preletteraria, Atti della seconda giornata di studi sull’Atellana, Casapuzzano di Orta di Atella (Ce), 12 novembre 2011, Urbino 2013, p. 146.

(8) Come confermano le sue parole cit. sopra, n. 2; quanto agli studi, basterà citare i due libri di cui si diceva più fiero: Il ratto dal serraglio (Urbino 19972) e Semiramide redenta (ibid. 1989).